Nel 1959 Pierre Boulez, a Strasburgo per dirigere il suo lavoro Le Visage Nuptial, riunì sei giovani percussionisti di due orchestre locali. Dopo questa esperienza i sei scoprono le loro affinità e decidono di creare una formazione stabile con un proprio repertorio. Nascono così Les Percussion de Strasbourg, in realtà il repertorio ancora non c’è, ma i nostri contagiano con il loro entusiasmo molti compositori quali Messiaen, Stockausen, Serocki, Xenakis e tanti altri e realizzano il miracolo. Da allora grandi successi hanno accompagnato la formazione nelle più importanti istituzioni musicali del mondo e il repertorio ha raggiunto la cifra di almeno 300 opere originali scritte per loro. A Roma mancavano da diversi anni e la loro presenza ha richiamato un numeroso pubblico che ha affollato la grande Aula Magna della Sapienza per la stagione dell’Istituzione Universitaria dei Concerti.
Il colpo d’occhio sul palcoscenico è coinvolgente, lo spazio è completamente riempito da un numero incredibile di strumenti che lasciano presagire una serata lontana dalla noia. Il primo brano è Transir di Michael Lévinas con sei marimbe che suonano in fortissimo, sempre la stessa cellula tematica rallentando e accelerando con ritmo ossessivo sottolineato alla fine dal suono secco dello xilofono. Poi è la volta di Credo in US partorito dal genio di John Cage, qui sono di scena un pianoforte, suonato anche sulla cordiera, una radio, un giradischi che suona un brano di musica classica e un set di percussioni quali gong, campanelli, tamburelli lattine ecc. Lo scopo è quello di sottolineare frizioni e contrasti che si realizzano nell’esperienza acustica quotidiana. Superstructure di Oliver Schneller non ha la stessa ironia del pezzo di Cage, l’organico è formato da due Glockenspiel, due vibrafoni e due marimbe, la struttura del brano è molto rigorosa, sono 66 “moduli”, 11 per ogni musicista, presentati come blocchi di suono omogenei, in cui si sovrappongono ritmi, tremoli, cellule tematiche che si stemperano in un finale in pianissimo.
Un classico per questo genere è Pléiades di Iannis Xenakis, un brano quadripartito con ogni parte dedicata a una famiglia diversa di strumenti dove appaiono anche i “sixxen”, dei metallofoni inventati dall’autore che producono qui un suono paragonabile quello dei metalli di una officina. La successione dei movimenti è coinvolgente fino all’epilogo in fortissimo di tamburi, bongos, tom-tom che scatenano nel pubblico un applauso che suona come una conclusione della partitura.